CASA DI CARTA E SINDROME DI STOCCOLMA: Tra Imprevisto e Realtà
di Anna Innocenzi, Psicologa presso Centro Apice
“Anche per me sarebbe stato più facile se non fosse successo niente, è stata l’unica vera falla di un piano perfetto.. che era perfetto.. perché anche se andasse tutto bene io rimarrei fregato perché non potrei più vederti, credi che avessi previsto di innamorarmi dell’ispettore incaricato del caso?” (Cit. Il Professore)
Un gruppo di rapinatori, un colpo alla zecca di stato, un piano “perfetto”, bisognava seguire due regole: non uccidere e non avere relazioni amorose tra loro. Perché è stato più facile rispettare la prima che la seconda? Il piano “quasi” perfetto stava per saltare proprio per l’imprevisto, qualcosa che non si poteva “calcolare” come l’Amore.. Quello passionale tra Tokio e Rio, quello ambivalente e timoroso tra Berlino e Ariadna, quello romantico tra Denver e Mónica Gaztambide e quello intimo e profondo tra il Professore e l’ispettore. Non possiamo evitare di provare certe emozioni o nasconderle anche a noi stessi e l’amore è un sentimento grande e forte. Ma le emozioni e le relazioni tra vittime ed ostaggi sono sincere o determinate dalla situazione? I sequestrati possono davvero innamorarsi dei rapinatori? E se si trattasse della famosa Sindrome di Stoccolma?
Facciamo un passo indietro..
Il 23 agosto 1973 un uomo di nome Jan-Erik Olsson di 32 anni, evaso dal carcere di Stoccolma sperimentò una rapina alla sede della Sveriges Kredit Bank di Stoccolma e prese in ostaggio tre donne e un uomo (loro erano: Elisabeth, 21 anni, cassiera e successivamente infermiera; Kristin, 23 anni, stenografa e successivamente assistente sociale; Brigitte, 31 anni, impiegata; Sven, 25 anni assunto da pochi giorni e successivamente impiegato presso un ufficio). Olsson chiese e ottenne di essere raggiunto dal suo amico ed ex compagno di cella, Clark Olofsson, 26 anni. La prigionia e la convivenza forzata di ostaggi e rapinatore durò 131 ore al termine dei quali i malviventi si arresero e gli ostaggi furono rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza o violenta da parte del sequestratore. Nel corso delle lunghe sedute psicologiche cui i sequestrati vennero sottoposti si manifestò un senso positivo verso i malviventi che “avevano ridato loro la vita” e verso i quali si sentivano in debito per la generosità dimostrata. Da questa rapina il nome alla “Sindrome di Stoccolma”, un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica. Spesso guardando le nostre serie tv preferite accade che ci immedesimiamo nelle storie dei personaggi, ci affezioniamo a loro e quando finisce la serie tv ci mancano come fossero persone reali. Nella Casa di Carta arriviamo addirittura a tifare per i Ladri invece che per la Polizia. E se fossimo anche noi “Vittime” della “Sindrome di Stoccolma”?
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