Noi e la Disabilità
di Amelia Borello, Psicologa Psicoterapeuta presso Centro Apice
Persone disabili. Ci capita di vederle per strada o in un bar, hanno gli occhi a mandorla o sono sulle sedie a rotelle, sono estranei, fanno parte della nostra cerchia di amici o della nostra famiglia.
Hanno difficoltà, si sentono esclusi, emarginati, incapaci, ma queste sono sensazioni che chiunque può provare.
Non sempre riusciamo ad essere d’aiuto o di sostegno alle persone con handicap, non sempre siamo capaci di rapportarci con loro e di capirli. Non sappiamo come fare perché seguiamo gli “stereotipi”, non riusciamo a identificare in loro delle persone che abbiano un cervello, un cuore, che siano capaci di pensare e di provare emozioni.
Ma ci siamo mai chiesti, effettivamente, di cosa hanno bisogno?
Sono persone che seguono “le regole”, hanno la loro giornata scandita da orari: centri diurni, palestre, terapie, piscina, ma di cosa hanno veramente bisogno?
Ci è mai capitato di chiederglielo, in modo autentico, e non solo formale?
Non è importante chiedere attraverso i contenuti, ma chiedere con il cuore, entrando in relazione con loro, accompagnando la richiesta con gesti calorosi, con lo sguardo, con la nostra vicinanza fisica, con un tono della voce calmo e accogliente. Questo modo di comunicare vale più di mille parole! Perché la comunicazione viaggia contemporaneamente su due livelli: il contenuto – cioè le parole “di cosa hai bisogno?”- e la relazione – attraverso cui si trasmette il messaggio: “io sono qui”. Tutto questo è fondamentale in qualsiasi rapporto, ma diventa particolarmente importante quando ci relazioniamo con persone disabili.
Ci siamo mai soffermati a chiedere loro come si sentono? Le emozioni sono universali; noi probabilmente, quando ci rapportiamo con persone disabili, talvolta proviamo un vissuto di impotenza, tristezza o rabbia, ma loro invece cosa provano?
Ecco l’importanza di “giocare” con le emozioni: dare loro un nome, riconoscerle, capire quando le proviamo e cercare insieme di gestirle.
Leggere le emozioni degli altri serve ad avere più sensibilità, maggiore capacità di ascoltare ed essere più attenti ai loro bisogni.
Le persone disabili colgono qualsiasi nostra variazione emotiva, sono empatiche perché non sono ancorate alla rigidità degli schemi mentali e vivono liberamente le emozioni.
Questo perché le persone disabili sono molto sensibili a percepire il disagio che gli altri provano quando si rapportano con loro.
Basta poco per entrare in sintonia! Spesso avviene in modo inconsapevole: non ce ne rendiamo conto, ma i nostri movimenti e l’espressione del nostro viso rispecchiano quelle della persona disabile, e viceversa. Diventa una danza, una sintonia di emozioni condivise.
La rabbia, la paura e la gioia sono “contagiose” ed avere più conoscenza di ciò che proviamo noi e gli altri, ci aiuta sicuramente a relazionarci in modo più funzionale ed armonioso.
Reputo necessario sottolineare che non esistono regole, protocolli, teorie che ci permettono di aiutare, comprendere o sostenere i disabili: la bellezza sta proprio nell’essere “UNICI”.
Certo, con qualche difficoltà in più, ma provare emozioni, avere bisogni, desideri ed agire di conseguenza sono riconducibili a qualsiasi tipo di deficit o disturbo: spaziamo dall’autismo alla schizofrenia, passiamo dai disturbi dell’apprendimento alla dislessia, fino alla tetraparesi o semplicemente al ritardo mentale lieve.
Dare un nome alla patologia, inquadrata in un contesto diagnostico e teorico, è necessario per strutturare un intervento riabilitativo e di sostegno, ma questa va associata alla bellezza di ogni singola persona che va considerata per la sua singolarità.
Il principale obiettivo è quello di favorire lo sviluppo delle abilità necessarie di queste persone nell’ambito della vita quotidiana, relazionale e sociale, per farli essere il più possibile liberi, autonomi e indipendenti.
Raggiungere un buon livello di autonomia, considerando le capacità ed abilità della persona disabile, rappresenta una delle più importanti finalità delle pratiche riabilitative, indipendentemente dalle specifiche patologie. In questo processo vanno coinvolte tutte le figure che ruotano intorno a loro: dagli operatori agli educatori, ma, in particolar modo, vanno coinvolti i familiari e i genitori perché saranno loro in prima linea i promotori del benessere psicofisico della persona disabile.
Il lavoro educativo mira al recupero delle abilità perdute e, qualora fosse possibile, mira all’acquisizione di nuove abilità. In tutto questo, i genitori e i familiari ricoprono un ruolo fondamentale nel raggiungimento di un maggiore benessere psicofisico della persona disabile. Possono essere proprio loro i primi ad essere d’aiuto, facilitando e promuovendo la comunicazione verbale e non verbale, così come esprimendo e condividendo le emozioni.
Bibliografia:
Budano V. (2012) Io sono nato così! Come imparare a guardare la differenza, Franco Angeli, Milano;
Goleman D.(1999) Intelligenza emotiva, Bur, Milano;
LeDuox J. (2003) , Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, B.C.D. Milano;
Vaccaro A.G. (2003) Abilitazione e riabilitazione. Dall’assistenza all’autodeterminazione, Mc Graw-Hill, Torino.
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