STARE IN CASA E CONNETTERSI (CON SE STESSI)
di Valeria Florio, psicologa psicoterapeuta
Epidemia, poi pandemia, quarantena… parole che eravamo abituati a sentire soltanto nei film o libri di fantascienza, dove vengono descritti scenari apocalittici che mai ci saremmo aspettati di poter vivere in prima persona. Eppure eccoci qua, coinvolti in una guerra contro un nemico invisibile, nonostante così pericoloso. Le misure sempre più restrittive che il Governo italiano si è trovato costretto a prendere, ci portano a restare chiusi in casa, e, con piacere o nostro malgrado, ci inducono a guardarci più dentro, ad aprire nuovi canali di riflessione. Stare in casa corrisponde, anche a livello simbolico, a fermarsi dall’affanno quotidiano, rallentare i ritmi spesso frenetici, connettersi maggiormente con se stessi. Per qualcuno questo potrebbe rappresentare un ulteriore motivo di ansia, dalla quale si vorrebbe fuggire, cosa che al momento non è del resto possibile fare. Infatti, soprattutto in una prima fase, abbiamo assistito a vari tipi di reazione di fronte alla situazione che man mano andava aggravandosi; ai due estremi del ventaglio di risposte possibili troviamo:
– chi è andato in panico, non riuscendo a gestire l’ansia crescente e lasciandosi travolgere da pensieri catastrofici perdendo il contatto con la realtà e la lucidità e agendo solo in preda all’emotività e l’impulsività del momento, andando così a innescare un circolo vizioso di ansia sempre maggiore;
– chi invece ha preferito sottovalutare la problematica, scacciare le paure perché insostenibili, negare le proprie emozioni e anche la situazione, evitando di prendere contatto con essa, cercando di condurre la solita vita senza limitazioni e anzi assumendo talvolta anche condotte a rischio dettate dalla superficialità.
Questi due tipi di reazioni rappresentano i due estremi di un continuum; nel mezzo ci sono tutte le reazioni più moderate che implicano un contatto più funzionale con l’emozione che sta alla base di tutti questi comportamenti, e cioè la PAURA. Sì, perché è di questa che si tratta, e non è un’emozione che dovrebbe spaventarci poiché, come tutte le emozioni primarie, è utile alla nostra sopravvivenza. È la paura che ci porta ad essere maggiormente attenti quando entriamo a contatto con stimoli nuovi e potenzialmente pericolosi, è lei a guidarci nella scelta delle condotte più funzionali per non farci male. Di fronte all’ignoto ognuno di noi si approccia con più o meno paura, e la consapevolezza di questa emozione ci porta a valutare la pericolosità o meno della situazione e di conseguenza a scegliere come gestirla. Così facendo riusciamo anche a contenere la nostra paura. Laddove invece non c’è un contatto sano con ciò che sentiamo, o ci si spaventa della propria paura, questa può trasformarsi in panico che è semplicemente un picco della paura stessa. Oppure, ci possono essere, come scritto sopra, delle modalità di negazione della paura (“sono tranquillissimo, non mi spaventa nulla“) che portano a condotte di evitamento, salvo poi sfociare nell’estremo opposto quando le distrazioni non reggono più.
Ciò che dobbiamo ricordarci quindi, in questa fase, è che provare paura, stati di ansia, è normale e non patologico: stiamo facendo tutti quanti i conti con una situazione ignota, nuova, sconosciuta e soprattutto di cui non conosciamo l’evoluzione. Siamo abituati a difenderci da ciò che non conosciamo cercando di controllare il mondo circostante, in maniera per lo più vana. Uno dei punti fondamentali che si affrontano in psicoterapia è proprio cercare di accettare ciò che non possiamo controllare, e gestire ciò che può dipendere invece da noi. Quella che stiamo vivendo è una situazione generalizzata in cui ci ritroviamo tutti quanti a fare i conti con questo punto, che ci richiede di allargare la nostra finestra di tolleranza alla frustrazione. Non possiamo fare niente (a meno che non siamo medici o figure coinvolte in prima persona in questa battaglia) se non stare a casa e seguire le direttive, cosa molto semplice tra l’altro. Dobbiamo accettare l’incertezza dello scenario attuale; non abbiamo nessuno a cui chiedere risposte su come andrà a finire, anzi, dobbiamo essere noi adulti a dare risposte ai bambini.
A volte delle persone vengono in terapia sentendosi perseguitate (“succedono tutte a me“), non tollerando l’incertezza (“devo sapere, non posso stare in questo stato di attesa“), tentando disperatamente di controllare tutto (“mio marito deve fare come dico io“); improvvisamente la situazione attuale ci mette tutti sullo stesso piano, ridimensionando tante priorità e problemi e invitandoci a riflettere su quanto sia importante la consapevolezza di ciò che si prova e l’accettazione del nostro stato interno, nonché esterno. Tutto questo rappresenta la base per poter trovare dentro di noi le risorse per gestire la nostra nuova quotidianità.